Nagelfar – “Virus West” (2001)

Artist: Nagelfar
Title: Virus West
Label: Ars Metalli Records
Year: 2001
Genre: Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Hellebarn”
2. “Sturm Der Katharsis”
3. “Hetzjagd In Palästina”
4. “Westwall”
5. “Fäden Des Schicksals”
6. “Protokoll Einer Folter”
7. “Meutere”

Il frastagliato sentiero che porta alla scoperta dei Nagelfar è un percorso a ritroso all’inseguimento di un’effimera scia di schiuma nel mare in tempesta, volto alla ricerca di un motore primo, una causa scatenante che possa giustificare quel modo tedesco di fare Black Metal, così pregno ora di paganitas, ora di suggestioni liriche, concettuali dall’intensa e lacerante connotazione poetica e una visione spontanea dell’arte intesa come complesso sistema rizomatico in cui la sperimentazione, per quanto non priva di una connotazione di ribellione e scoperta, sembra essere concepita come uno snodo naturale in grado di far convergere i tratti di un quadro ben più ampio, dalle tinte e dalle suggestioni forse molto spesso comuni ma anche distanti spazialmente; da qui, quello che è il delinearsi di caratteri che, per quanto ricettivi, di rado puntano all’ardito stridore di componenti ossimoriche si fa ineffabile e sotterraneo, difficile da cogliere nella sua genesi tanto decentralizzata e silente.
In questo panorama dalle così sfuggenti coordinate, l’uscita di un disco come “Virus West” nel 2001 rappresenta, con la sua natura ambivalente nell’essere al contempo conclusione di un ciclo e riforgiatura di un linguaggio, un violento slancio nonché un caustico e spietato punto di non ritorno, affacciato a strapiombo sul nuovo millennio ma traboccante astio e disillusione di un’umanità che sembra gravarsi del peso di una colpa millenaria mentre si aggira spaesata tra le macerie ancora fumanti del Secolo Breve.

Il logo della band

Poco più di un misero anno solare, non appena il tempo che -se trasposto in musica- ricopre il fascinoso racconto che segue le vicende di sviluppo ed evoluzione del personaggio che dà il nome al secondo capitolo dell’opera omnia della band, avrebbe dovuto separare l’uscita di due dischi tanto illuminanti e fondamentali quanto per l’appunto sono “Srontgorrth” e il conclusivo “Virus West”; ma il passaggio da Kettenhund Records ad Ars Metalli porta con sé dilungamenti e problematiche tutt’altro che artistiche le quali vanno a colpire in modo analogo un’altra formazione pronta a dare sfoggio di oscura classe ed eleganza aldilà del Reno, intralciando l’ascesa ai piani alti del genere tanto ai Nagelfar del formidabile capitolo finale quanto ai Lunar Aurora di “Ars Moriendi”. Un lasso di tempo così ristretto che, tuttavia, non vede nel cambio di label l’unico mutamento: l’abbandono da parte di Jander, fra le fila del progetto fin dai suoi primordi, non può essere visto come un semplice passaggio di testimone, per via di un apporto che va ben oltre la prova vocale e comprende la plasmazione di un complesso e strutturato concept, che nello specifico in “Srontgorrth” ha condotto ed incanalato la scrittura stessa verso la composizione di quello che de facto è un lungo e tortuoso pezzo unico suddiviso in capitoli dalla genesi originariamente estemporanea, dall’intensa componente atmosferica ed evocativa. La sua separazione con il resto del terzetto tedesco e l’inclusione invece dell’acida ugola di Zingultus, dalle venature più graffianti e feroci del suo predecessore, sono indubbiamente elementi che hanno favorito la spontanea formazione di brani ancor più violenti e piantati, meno smaccatamente estrosi per evoluzione e che, per quanto rivelino nella loro interezza un fil rouge di salda uniformità e concordanza, si dimostrano anche maggiormente atti ad essere indagati e vissuti nella dimensione del singolo brano, con ogni capitolo che si disvela sia in quanto completo microcosmo concettuale che autentica miniera di riff sopraffini e sanguigni.
Quella che sulle prime battute rischia di essere percepita come un’involuzione è tuttavia una ridefinizione in termini, una presa di coscienza di artisti nel 2001 già nel pieno della loro maturità: lo sperimentalismo ardito e grandioso di “Srontgorrth” non viene in alcun modo represso da un moto improvviso di ingerente conservatorismo, ma si fa al contrario più sotterraneo e crepuscolare; i rintocchi liquidi e traslucidi, ben distanti dalla piega industriale figlia degli ultimi ’90 che si era diffusa a partire dall’asse Svizzera-Norvegia e qui maggiormente vicini ai contesti autoctoni e cosmici di Klaus Schulze e Tangerine Dream votati alla danza tribale, mutano in oscura rumoristica dispersa nel sottobosco di una composizione fragorosa e piena, nelle svirgolate apocalittiche dei synth per la prima volta comandati da Von Meilenwald in mortale miscela con i cordofoni, ad imbastire gli asfissianti scenari di una tormenta terrosa e terrifica.

La band

Ma fra le ritmiche sferzanti e i passaggi muscolari non vi è mera esaltazione, culto ed elegia dell’aggressività, bensì una lucida e disperata analisi dell’uomo contro uomo, un’esasperazione di quell’homo homini lupus che nell’atto bellico, nell’artificio machiavellico non vede nemmeno più un gesto potenzialmente eroico e virtuoso, ma preferisce scrutarne il catastrofico esito, perdendosi nel dolore e nella devastazione, nella perdita di un idolo che svanisce non appena lo spasmo bestiale viene meno: erti sulla più alta guglia della cattedrale di Aquisgrana, crocevia culturale e religioso nel Medioevo e cuore pulsante del Sacro Romano Impero, i Nagelfar lanciano uno sguardo che travalica l’ordinario scorrere del tempo, partendo dalla loro terra natia per investire le atrocità della conversione in Terra Santa, oltrepassare poi le distese inaridite dai conflitti del Vecchio Continente, arrivando infine a condannare un’umanità ormai irrimediabilmente corrotta ed impantanata nel suo stesso gioco, profetizzandone il suo definitivo e inevitabile crepuscolo.
I latrati via via sempre più alterati e malati di bestie corrotte inevitabilmente da un virus che ne stimola gli istinti più ferini sono il tetro e premonitore preambolo preso in prestito da “The Thing” di Carpenter (“La Cosa”, 1982); atto primo ad introdurre con “Hellbarn” il nuovo assetto frantumante, lanciato in convoluzioni, integrazioni serrate e stratificate che con eleganza si scrollano di dosso i riferimenti diretti ad Enslaved, Helheim, Kvist ed Emperor, mentori indubbi nel percorso primo di plasmazione del sound, ma ora relegati ad originarie linee guida di un processo ormai troppo avanzato per reggere il peso del confronto, fra dettagli incastonati con il fuoco e attentamente sovrapposti in crescendo dinamici. La creazione di un compatto blocco sonoro tuttavia non rinuncia ad un piglio melodico fuori dagli schemi, in grado di tratteggiare con pochi ma decisi tocchi gli scenari sabbiosi e arcaici di un Medio Oriente tragicamente insanguinato dalle assurde e violente missioni di conversione: se le auree linee di “Sturm Der Katharsis”, tanto acuminate quanto sinuose, si ritagliano uno spazio fra i momenti più immediatamente ammalianti del disco, le spesse trame di “Hetzjagd In Palästina” rivelano davvero un nuovo mondo, fatto di trame di guerra polverose e immersive, in cui sale alla ribalta l’importanza che ricopre il basso nella composizione del full-length; paradossalmente uno strumento tanto controverso nella storia del gruppo, affidato prima allo stesso Zorn, poi per un brevissimo periodo consegnato ad un Chaos che nella pratica mai pose la sua firma su una release ufficiale e infine curato a quattro mani dalla coppia ritmica Zorn – Meilenwald, si scopre fondamentale nell’imbastire quella travolgente carica groove e nel saper inoculare i germi di uno spirito psichedelico, che con un tono e un utilizzo vicino alla scuola Darkwave di Type O Negative e The Sisters Of Mercy anticipa molto delle atmosfere fumose e ipnotiche dei successivi The Ruins Of Beverast.
Allontanati dal secco ambiente permeato dell’acre odore del sangue coagulato fra le dune, l’atto di spaccare a metà il disco spetta ai due minuti di “Westfall”, che come la tristemente nota Linea Sigfrido rappresentata in copertina, i cui i blocchi piramidali anticarro dalla foggia funeraria diventano solo per trasposizione monumenti alla memoria di un mondo occidentale ormai malato e decaduto, passando per il buio più profondo dell’Europa ci spinge ad intraprendere un’ultima e disperata rotta verso lidi più astratti e definitivi. Ma dietro le sue note gloriose contrappuntate di argentea elettronica non lontana dall’epica del sottotitolato “Die Macht Erfaßte Das Meine Wie Die Angst Das Blut Der Anderen” si celano le illusioni del più brutale conflitto, che come una deflagrazione in pieno volto s’infiamma fra le ritmiche destabilizzanti e vertiginose di “Fäden Des Schicksals”, inno funerario e fatale dall’intertestuale vena etena, in cui i fili delle norne tessono i destini di uomini ormai inerti e rassegnati a scelte e giochi di forze a loro imperscrutabili; è da qui in poi che sembra rinvigorirsi quella vena più propriamente Pagan che già spadroneggiava fin da “Hünengrab Im Herbst” del 1997, ripescata fra cori in ronzante sovrapposizione con il muro di suono e stacchi dalla verve maggiormente sinfonica, intravedibile anche tra i colpi marziali, le mitragliate e le soluzioni ossessive di “Protokoll Einer Folter”. La chiusura, a posteriori identificabile come l’ultimo vero tassello dell’intera discografia del trio di Aachen, è semplicemente strabiliante: “Meuterei”a tutti gli effetti un inno testamentario della band, si manifesta in un’epica e tonante esplosione di fiati e ottoni dalle dorate rimembranze bathoriane, cavalcate aspre e gracchianti sintesi dell’assoluto meglio che i tedeschi abbiano prodotto nella loro carriera, dove l’incedere della nave Naglfar segue indefessa l’oscillare delle voci di marinai maladetti dal’infame omicidio dell’albatros nei melmosi mari del Sud e che, già periti, intonano a pieni polmoni i canti della fine del mondo, liberi infine dell’ingente peso della condizione terrena (persa o vinta ai dadi a seconda dell’interpretazione), finalmente sazi di quell’agognata espiazione di un biblico peccato originale che quasi percepito come agente patogeno ne comandava malignamente le turpi gesta.

Il terzo e conclusivo capitolo dei Nagelfar traccia degli stilemi che, a dispetto di una fama mai veramente raggiunta fra il grande pubblico, nelle decadi successive non verranno affatto dimenticati in suolo tedesco e risuoneranno con le dovute proporzioni non solo fra le note dei progetti che vedono la dichiarata presenza di uno dei tre membri, fra cui naturalmente non si può non citare i The Ruins Of Beverast e i Graupel (in particolare quelli dell’affine “Am Pranger…” del 2010), ma anche nelle partiture di Drautran o Wolfhetan di lì a qualche anno, giungendo perfino ad intravedersi negli ultimi Der Weg Einer Freiheit (forse in “Stellar” ancor più che in “Finisterre”) e nella miscela così sui generis e di matrice più attuale dei Fyrnask, elevando ad identità nazionale quell’indefinibile valanga compatta di riff che si dipana qui in oltre un’ora; “Virus West” è d’altro canto un drammatico viaggio fra salvifici vagheggiamenti di una catarsi perduta tra le granulose pieghe di un culto mai pienamente disvelato, fradicio di macchie scarlatte e delle speranze di un ideale comune affogate beffardamente nel venefico elleboro, schiacciate da un’imperante sete di potere che, crogiolandosi nell’ipocrisia di una fratellanza predicata e di una verità promessa, muove le fila e le volontà degli individui sfruttando quella lancinante scintilla di cieco istinto e immotivata malvagità che ogni uomo conserva in sé e che, nella sua mendace viltà, mai potrà pienamente accettare.

Lorenzo “Kirves” Dotto

 

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